Le verità nascoste nella chiesa dei morti di Urbania

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Alla scoperta di Urbania

Qualcuno saprebbe dare un significato alla parola morte? Che cosa vi spaventa maggiormente, il dolore fisico o la fine della vita terrena? Penso che ognuno di voi si sia fatto più di una volta questa domanda. Il mio terrore è pensare che la morte sia per sempre.

Urbania è posta all’interno di teche ventilate, realizzate appositamente per conservare diciotto mummie che sono arrivate fino ai giorni nostri grazie ad una muffa dall’impronunciabile nome: Hipha Bomibicina pers. Un particolare fungo che ha preservato i corpi rendendoli immuni ai batteri.

Il cimitero di Urbania

Arrivo all’appuntamento prefissato qualche ora prima per godermi la città che sembra una antica Camelot, ma sopratutto per trovare quella serenità che mi serve ogni qual volta affronto temi così delicati. Passeggio sotto le antiche arcate ascoltando il forte vociare dei tanti stranieri ospiti del paese.

Sono le tre e mezza, aspetto fuori la piccola chiesa e finalmente arriva un ragazzo dall’aria bonaria che si presenta con molto garbo, è Giovanni Maestrini, la mia guida.

Entriamo dentro e ci dirigiamo dietro il tabernacolo dove è posta una vera e propria necropoli. Giovanni mi lascia un attimo solo per farmi preparare la macchina fotografica mentre sento salire una specie di angoscia che subito si impossessa di me. Vorrei andare via, lo spettacolo che mi si pone davanti è agghiacciante, sinceramente non adatto ai deboli di cuore, e sento un brivido scendermi lungo la schiena.

Il mio cicerone capisce il mio spavento e incomincia con una battuta per rompere il ghiaccio: “Questa è la mummia che preferisco, – e ne indica una che conserva intatti addirittura i lineamenti e parte delle orecchie – perché dopo tanti secoli ha ancora i capelli, io invece che ne ho 34 li ho già persi tutti.”

La battuta mi rasserena e Giovanni mi chiede: “Come sei venuto a conoscenza della chiesa dei Morti di Urbania?”.

Rispondo: “Avevo visto un servizio su Rai Uno con Piero Angela sul fascino di questo misterioso luogo”.

“Si – afferma – ma sono state qui anche la troupe di “Mistero” (Italia Uno) e “Voyager”, e addirittura nel 1965 Lattuada girò “La Mandragola” ispirato all’opera del Machiavelli, che aveva come protagonista Totò, la Schiaffino e Phillippe Leroy, che voleva lasciare la scena tanto era rimasto impressionato da questo posto arcano.”

La prima mummia che mi salta agli occhi è posta davanti a me, ed è l’unica che indossa un vestito. “E’ il priore Vincenzo Piccini, un laico, farmacista, una specie di alchimista che volle realizzare questa bizzarra collezione, donando il suo corpo alla scienza per un esperimento di mummificazione artificiale. Il suo abito appartiene alla Confraternità della Buona Morte. Perfino suo figlio e sua moglie, morta in tarda età, sono esposti nella teca a fianco dell’ingresso”.

Le mummie sembrano la testimonianza della piccolezza dell’esistenza umana, narrando drammi, amori, speranze e sventure di persone vissute secoli addietro.

Giovanni continua il racconto, passando in rivista teca per teca, soffermandosi su ogni singolo defunto, spiegandomi le loro diverse malattie: un rachitico, una poliomielitica, una ragazza morta per un cesario con un evidente squarcio a croce.

Mi viene spontanea una domanda, forse un po’ banale: “Questo cimitero, oltre a essere una dimostrazione concreta della fine di ognuno di noi, è anche un vero e proprio laboratorio, adatto per medici e patologi. Immagino che ci siamo stati studi approfonditi da parte di qualche scienziato.”

“Si, ne sono venuti in tanti, persino l’Università di Innsbruck, famosa per lo studio del cacciatore Oetzi, vissuto più di tremila anni fa.

Oggigiorno – continua – molte delle patologie che ho citato sono state debellate, ma immaginati secoli addietro, una infezione o una febbre potevano essere letali. In questo cimitero abbiamo quasi tutti “figli del popolo”, che non avevano un adeguato nutrimento e quindi la morte sopraggiungeva in giovane età, a differenza, appunto, di Vincenzo Piccini, sua moglie, del fornaio qui sulla tua destra che aveva donato i suoi averi alla Confraternita, e il priore. Nota come è alto rispetto agli altri, sintomo di una robusta alimentazione a base di carne e vino rosso, che però gli ha creato un caso di gotta, portandolo alla morte. Questa era la malattia dei ricchi. E’ raro trovare in questo cimitero persone abbienti e illustri. Gli unici sono contrassegnati con il loro nome su un’etichetta posta sul cranio e sono: Macci Sebastiano, autore delle traduzioni della battaglia del Metauro e Baldelli detto il “Lunano”, perché proveniente dalla omonima città.

In questo cimitero abbiamo, però anche persone trapassate per morti violente, come un condannato a morte per impiccagione e un ragazzo pugnalato durante una serata danzante che vanno ad arricchire questa macabra collezione”.

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Stuzzico Giovanni, ma sembra quasi che sia abituato a questa domanda un po’ provocatoria: “ Qual è quella che preferisci, e tu che sei a contatto ogni giorno con la morte, cosa ne pensi di questo funereo ma affascinante cimitero?”

Risponde senza riflettere nemmeno un attimo, sintomo che non sono il primo ad aver formulato il quesito: “ E’ l’uomo morto per soffocamento. Era in uno stato di catalessi, ma purtroppo è stato sepolto vivo. Nota il suo diaframma interamente rientrato e il sorriso sardonico. E’ morto sul colpo fortunatamente, ed essendo stato sotterrato nella terra viva, ha sofferto meno che se fosse stato posto dentro una bara. Se ti avvicini noterai la pelle d’oca e il colore rossastro dovuto alla rottura dei capillari. Per quanto riguarda il mio giudizio su questo sepolcreto, ti dico solo che mi ha convinto a farmi cremare ”.

Mi avvicino lentamente perché sento una strana sensazione, come se il cadavere mi stesse osservando. Inconsciamente cerco di chiedere scusa all’anima di questa persona per farmi perdonare nell’osservarlo proprio nel momento del suo ultimo respiro. La sua smorfia, che sembra beffarda, mi incute una paura che mi accompagnerà fino alla fine del mio ritorno a casa.

“Marco, come ti senti?”, mi chiede gentilmente il mio cicerone.

“Sono un po’ inquieto, sapere che tutto quello in cui credo e tutte le difficoltà che dovrò affrontare alla fine hanno questo risultato beffardo. D’ora in avanti ogni qual volta avrò qualche momento di amarezza, so che devo pensare a questa esperienza assaporando con gioia ogni attimo della mia vita. Credevo di venire a scrivere un articolo, e invece oggi ho avuto una dura lezione di vita”.

“Il cimitero è un grande insegnamento, perché insegna a noi tutti l’umiltà. Dobbiamo avere rispetto per la morte ma ancor di più per la nostra esistenza”, dice Giovanni con saggezza.

Come dargli torto, penso. Il simpatico intercalare romagnolo di Giovanni disdice con il contesto, ma questa dura lezione che porterò custodita gelosamente dentro di me deve essere di monito per tutti, a partire dai grandi della terra o da tutte quelle donne che alcune volte vedo perse nei riflessi della loro vanità e che non hanno ancora capito che pur nascondendosi dietro centimetri di belletti finiranno come queste persone.

Saluto Giovanni, una delle guide più simpatiche ed estroverse che abbia mai conosciuto, e lo ringrazio per aver condiviso questa elettrizzante esperienza. Vado via con un leggero sapore di sconfitta, ma anche con la consapevolezza di aver ritrovato una gioia di vivere che sento spesso persa in un mondo egocentrico che sta implodendo su stesso sotto i colpi di un falso materialismo che ha fatto perdere a noi tutti il senso vero della vita.


(Articolo apparso per la prima volta su lifemarche.net il 26/01/2016)

 

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