Urbex il fascino dell’abbandono nello zuccherificio Sadam.

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Urbex il fascino dell’abbandono nello zuccherificio Sadam

Urbex di una vecchia discoteca il Mahè, in cui ho affrontato il tema del tempo.

Satelliti impazziti in volo sono pronti a connettermi ad una rete virtuale, eppure agogno un’età dell’oro in cui l’uomo poteva svincolarsi dalla frenesia dettata da distopici algoritmi.

Sono figlio minore della “generazione X”, quasi un “Millenium” e tecnologico come un ragazzino della “Z”, ma sento sempre più spesso il bisogno di fermarmi per osservare il presente.

D’altronde progettare il proprio futuro in un momento storico come questo è da folli.

Mi piacciono le rovine o Urbex, chiamateli come volete. Sono luoghi medianici e abbandonati, pronti a traghettarmi nella vita degli altri, tesi a scoprire aneddoti passati, per assaporarne con malinconia: nascita, vitalità e divenire.

Sono il punto più estremo dell’architettura, il limite massimo del restauro, in cui la natura vince riappropriandosi dei propri spazi.

Città come Berlino invece hanno preferito, nei primi anni duemila, riconvertire i lasciti mediante la riqualificazione delle aree dismesse e dei suoi vecchi palazzoni, stravolgendo la propria pianificazione urbana.

Ogni luogo ha uno spartito a cui bisogna “fare orecchio“, per andare alla ricerca delle “presenze” che ivi vi aleggiano.

Sadam l’Urbex dello zucchero

Il fascino dell’Urbex dello zuccherificio Sadam.

Sono troppo giovane per ricordarmi le sirene dello zuccherificio Sadam, che scandivano con precisione l’inizio e la fine delle giornate lavorative e troppo vecchio per riscrivermi all’università e fare una tesi sulla sua riqualificazione.

Per il suo dottorato mia sorella, rifece l’intero “make-up” all’opificio, grazie ad una “doppia pelle architettonica“, tesa all’ammodernamento dell’intera struttura.

Ogni giorno questo “mammut” tramortito a morte capeggia sulla finestra del mio studio. Volevo farne la sua conoscenza, come quelle persone che saluto da una vita, ma chissà perché ho sempre evitato per un motivo o un altro.

E’ un urbex a un centinaio di metri da casa, “archeologia industriale” del secondo dopoguerra.

Ho troppa attrezzatura e per giunta inservibile, solo il drone può salvare la mia giornata lavorativa. Preferisco sorvolare per riprendere la fabbrica e il suo contesto, ma per i particolari devo andare in quota e avvicinarmi di molto.

Cerco di trovare un punto allentato della recinzione e quando lo scorgo valico i “confini“, evitando però di mettere un piede in fallo.

Alcuni ferri di ripresa ciondolano da travi in aggetto e le erbacce sono così fitte da impedirmi di entrare nel suo interno.

Decido di affidarmi alla tecnologia e filmare tutto ciò che non riesco a fare con la mia fedele Sony.

E’ arduo guidare il veivolo, molti pezzi della struttura “barcollano” nel vuoto, mentre uno stormo di uccelli al rumore del drone vola via facendo un baccano infernale.

Quello che resta

Il meraviglioso tetto della Sadam., oggi fabbrica e intorno sono completamenti dismessi.

Sento un grido e mi giro per capire da dove provenga. Non ho proprio voglia d’incappare nel solito urlatore domenicale, che nonostante abbia DPI e catarifrangenti, mi faccia le solite domande di rito.

Probabilmente sono io a volermi allontanare, per non mettere a nudo i segreti di questo misterioso Urbex, quando la Sadam svolgeva un ruolo chiave nel tessuto produttivo di Giulianova,

Tempi immemori in cui si potevano sognare e il lavoro era un diritto inalienabile.

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