Intervista a Francesco Barone. Con il cuore in Africa
L’Occidente ha sempre relegato l’Africa ad un ruolo di comprimaria e le notizie sui drammatici fatti che accadono nel Continente, vengono date con il contagocce dal mainstream, per smuovere momentaneamente le coscienze, senza darne il giusto valore.
Ho voluto intervistare chi è davvero sul campo e lavora con autorevolezza e la mia scelta è ricaduta sul professor Francesco Barone , che oltre ad essere docente di Pedagogia sociale e della cooperazione internazionale, presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli studi dell’Aquila è stato autore di 58 missioni umanitarie in Ruanda, Burundi, Senegal e Repubblica Democratica del Congo.
M.I.: “Quando ha sentito la necessità di dover fare qualcosa per l’Africa?. All’inizio della sua missione ha avuto dubbi, insicurezze e paure sulla riuscita del suo operato, dati gli innumerevoli pericoli a cui sarebbe andato incontro?”.
F.B.: “Il mio impegno umanitario è iniziato con il primo viaggio in Ruanda nel 1998. Inizialmente, i miei interventi riguardavano attività di coordinamento di alcuni progetti finalizzati a promuovere la scolarizzazione dei bambini di Kigali, capitale ruandese.
I primi viaggi in Africa sono stati intrisi di timori e insicurezze. Ero ben consapevole dei rischi cui sarei andato incontro ma non ho mai pensato di arretrare o desistere dal portare avanti le azioni necessarie par aiutare chi vive in condizioni di vulnerabilità economica, sociale e psicologica”.
Terre d’Africa
M.I.: “Di solito si considera l’Africa come un unicum fatto di nazioni simili tra loro. Gli esperti parlano a ragion veduta di “Afriche”. Qual è invece la sua visione d’insieme?“.
F.B. “L’immagine “storta” dell’Africa e la sua marginalizzazione nella storia ha le sue radici nella concezione etnocentrica ed evoluzionistica europea.
Impossibile parlare di una sola Africa, già a partire dalla Conferenza di Berlino del 1885, quando veniva spartita tra le potenze europee.
L’eredità avvelenata dal colonialismo è duplice: da un lato vi è quella economica, dall’altro quella politica e sociale.
In tal senso, considero significativo il pensiero di Kwame Nkuramah, rivoluzionario e politico ghanese, figura di spicco nella storia della colonizzazione e del panafricanismo, il quale metteva in luce il pericolo di una decolonizzazione di facciata.
Sono sparite le catene dai polsi e dalle caviglie delle persone, ma di fatto la schiavitù è un fenomeno ancora esistente. Basti pensare ai milioni di bambini sfruttati e alle donne vittime della prostituzione e della tratta degli esseri umani.
Considerare l’Africa un unicum è sbagliato.
Non serve una particolare conoscenza per comprendere, per esempio, che esistono profonde differenze economiche e sociali tra Egitto e Nigeria, tra Somalia e Congo, tra Algeria e Camerun”.
Tra le varie missioni
M.I.: “Ha svolto innumerevoli missioni in differenti Paesi africani e quella di maggior rilievo sembra sia nella Repubblica Democratica del Congo dove ha conosciuto anche Denis Mukwege, Nobel per la pace 2018. Qual è la situazione attuale?“.
F.B.: “Dopo numerose missioni umanitarie in Ruanda, Burundi e Senegal, i nostri interventi si sono concentrati nel Nord Kivu nella Repubblica Democratica del Congo.
La situazione è drammatica a seguito dei molteplici conflitti interni che stanno provocando profonde ferite e lacerazioni nella popolazione congolese.
La maledizione del “gigante” dell’Africa è la sua ricchezza mineraria.
Il movimento M23, costituito in buona parte da guerriglieri Tutsi, sta lasciando dietro di sé una scia di sangue e di orrore: stupri come arma di guerra, neonati uccisi e donne incinte sventrate e altri atti ancora più orribili. Purtroppo, come sta avvenendo in altre parti del mondo in cui si susseguono continui conflitti si tende a sottovalutare la gravità di ciò che accade.
L’incontro con Denis Mukwege è avvenuto nel gennaio 2019 a Bukavu. Dal medico congolese ho ricevuto un documento di denuncia contro le atrocità subite dal popolo congolese. Da quel momento ho diffuso il contenuto del manifesto in Italia e in Europa, attraverso incontri nelle scuole e tramite interviste”.
Il futuro dell’Africa
M.I. :”Il nostro futuro si giocherà in Africa, soprattutto per le nuove sfide verso un’economia sostenibile, poiché alcuni dei minerali che servono per la tanto decantata transizione green sono estratte nel continente nero. La Cina, sembra essere stata la più lungimirante accaparrandosi ciò che ritiene necessario per la crescita della nazione. Pensa che questa situazione porterà alla nascita di un nuovo colonialismo?”
F.B. :”L’immensa ricchezza mineraria del Congo è diventata la sua maledizione.
Nel paese africano, infatti, ci sono i minerali essenziali per l’high-tech come il coltan (80% della produzione mondiale), il cobalto, il litio, (e molti altri) che sono elementi fondamentali per i nostri telefonini, per le batterie elettriche delle nostre auto.
Da quanto riferitomi dalle persone del posto, tutti questi minerali che generano lo sfruttamento dei bambini, non passano per Kinshasa (la capitale del Congo), ma vengono trasferiti illegalmente in Uganda e in Rwanda, per entrare poi nel circuito internazionale.
A guadagnarci è soprattutto l’Occidente e le multinazionali, ma a perderci è il Congo, classificato come il terzo paese più povero del mondo.
La maledizione del “gigante” dell’Africa, dunque, è la sua ricchezza mineraria. Ecco perché il Ruanda sta facendo la guerra al Congo per annettere le confinanti province dell’Ituri e del Nord Kivu, ricche di questi minerali. Può sembrare strano, ma i rapporti tra Cina e Africa non sono nuovi, ma risalgono a più di 3000 anni fa, come dimostrano i resti di ceramiche cinesi scoperte in varie regioni sparse dell’Africa.
Il documento programmatico che il governo di Pechino ha presentato il 12 gennaio 2006, intitolato “la politica della Cina in Africa”, fotografa la punta di un iceberg di ampia portata che riguarda il continente nero: la presenza della Cina in Africa.
E poi si sta espandendo un altro fenomeno che sta impoverendo sempre di più la popolazione. Si tratta del “land grabbing”, ovvero, l’accaparramento delle terre da parte di alcuni Paesi ricchi”.
Bambini soldato
M.I. :”Lei fa spesso riferimento al dramma dei bambini soldato. Quali sono le sue considerazioni in merito e quale sua esperienza ritiene sia stata particolarmente dolorosa“.
F.B. :”L’origine delle immagini di un mondo sofferente, quello dei bambini e delle bambine, va ricercata anche nell’esigenza pratica di prendere posizione di fronte a ciò che accade e non restare indifferenti, rappresentando in modo chiaro ed inequivocabile i fatti che stanno rendendo vittime circa 300mila bambini.
Tutti dovremmo fare un primo passo, affermando con convinzione che l’utilizzo dei bambini soldato nei conflitti armati non è soltanto una gravissima violazione dei Diritti umani ma è un male di incommensurabile entità.
Come è facile intuire, durante le mie missioni umanitarie ho vissuto numerosi momenti di sofferenza.
Tra questi, proprio l’incontro con gli ex bambini soldati in una città del Congo. Inoltre, assistere alla miseria di milioni di persone fragili e innocenti ha reso particolarmente sofferente la mia permanenza in Africa.
Oggi più che in passato assistiamo a un regresso caratterizzato da un’onnipresente dimenticanza nei confronti di milioni di persone povere.
La povertà è il risultato delle ingiustizie dell’avere e dell’alterazione del valore universale dell’individuo. La brutalizzazione delle condizioni dell’uomo e in special modo di donne e bambini, l’affermazione sempre maggiore dei nuovi modelli socio-economici che considerano le persone come merce di scambio sono davanti agli occhi di tutti. Purtroppo ne ho avuto piena consapevolezza da vicino”.
Esperienze di viaggio
M.I.: “Oltre alle esperienze negative, avrà vissuto anche delle vicende positive. Quali sono state?“.
F.B. :”Sono molte. Nel corso di 25 anni di attività umanitarie ho incontrato più di 1 milione di persone. Ciò mi ha consentito di consolidare la mia idea di reciprocità, intesa come forma originaria della relazione interpersonale.
Nella reciprocità si suppone l’intenzionalità personale di ciascuno e il riconoscimento della comune umanità, dunque un’uguaglianza di fondo di fronte alle differenze.
La conoscenza degli altri e il saper vivere con gli altri, rappresenta un aspetto importante dell’esperienza umana che matura di giorno in giorno.
In Africa, la parola Ubuntu, indica il principio secondo cui si ha cura del benessere di ciascuno, uno spirito di mutuo soccorso che si oppone al nuovo tipo di narcisismo di cui l’uomo rischia di diventare preda. Le continue strette di mano e gli abbracci hanno rappresentato un significativo addestramento volto alla promozione dei valori della pace, che costituisce il punto di incontro più nobile tra morale, libertà e democrazia.
E’ in questi luoghi che si è rinforzato in me il convincimento secondo cui, la pace è la lotta contro la disumanizzazione, è l’idea secondo la quale non dovrebbe mai prevalere il lato oscuro della ragione”.
Finchè c’è guerra c’è speranza
Ve lo ricordate il celebre film di Alberto Sordi: “Finché c’è guerra c’è speranza?“. Questo crudo capolavoro della cinematografia italiana, metteva a nudo tutta l’ipocrisia del compassato mondo occidentale.
Nella parte finale della pellicola, l’Albertone nazionale in un soliloquio di circa dieci minuti, ammetteva che la causa delle guerre non è da imputare solo alla politica, ma anche alla sua viziata e incontentabile famiglia.
La povertà africana è figlia della cupidigia umana ed è contro bilanciata dal nostro narcisismo, il cui sfruttamento serve per appagare futili desideri.
Era il 1974. Sono passati decenni, eppure nulla è cambiato.