Uzbekistan: appunti di viaggio

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22 giugno 1941: “Il mondo rimarrà con il fiato sospeso”, tuonava Hitler davanti agli automi del Reichstag, e infatti, i Panzer III e IV, ammassati ai bordi dell’impero sovietico erano pronti all’attacco sputando lingue di fuoco azzurrognole dai tubi di scappamento che si mischiavano all’odore acre della campagna ai confini con l’Ucraina. E’ l’inizio dell’Operazione Barbarossa.

La maledizione di Tamerlano

Il nazismo si apprestava a invadere l’odiata Russia, con più di tre milioni di uomini, nella più grande e sanguinosa aggressione che la storia militare ricordi. Eppure la colpa dell’inizio del conflitto non è da attribuire unicamente al Führer e ai suoi accoliti, quanto agli archeologi russi che ben sapevano dell’anatema che Tīmūr Barlas, alias Tamerlano, aveva lanciato nei confronti di chi avrebbe profanato la sua tomba, perché l’iscrizione della sua dimora eterna ammoniva chiaramente che “Chiunque violi la mia quiete in questa vita o nell’altra, sarà soggetto a inevitabili punizioni e sciagure”.

Ma l’imperatore, che in Uzbekistan è venerato come eroe nazionale, non è stato tenero nemmeno con me, sicuramente in minor maniera, ma la sua maledizione mi ha dato innumerevoli problemi, perché il mio passaporto spedito in ambasciata per il consueto visto è stato rubato alle poste di Roma. Una rapina in grande stile che ha paralizzato la capitale e che poteva costarmi il viaggio.

Con la forza della disperazione, riesco ad avere il numero di cellulare del direttore postale del distretto di Cinecittà che mi conferma l’accaduto, e subito mi metto in moto per ottenere un nuovo passaporto. Con molta difficoltà sono riuscito nell’intento, anche grazie alla mia agenzia di fiducia Yor e alla bravura di Lionel, mio conferente, che ho tempestato di telefonate. Chissà perché i giorni passano più veloci quando hai qualche scadenza, conto le ore prima della partenza e sembra che questa volta debba proprio rimanere in Italia, ma alla fine con un pizzico di fortuna ricevo il tanto agognato passaporto, tirando un bel sospiro di sollievo.

Samarcanda

Alle due di notte, io e Giuliano, il mio compagno di avventure, arriviamo a Samarcanda, e dopo i soliti rituali usciamo dal piccolo aeroporto dove una nutrita folla si accalca per attendere i parenti e gli amici. Prendiamo un taxi e ci dirigiamo in albergo. Le strade sono tutte deformate e l’autista cerca di evitare le buche che hanno corroso l’asfalto. Sembra di essere migliaia di anni luce dall’imborghesita Europa, e penso che la scelta del mio alloggio non sia proprio in centro data la conformazione urbana e l’assenza d’illuminazione.Frettolosamente il tassista ci scarica, e arriviamo, evitando diverse pozzanghere, al nostro albergo. Suoniamo, ma nessuno risposta, aspettiamo infreddoliti e decidiamo di telefonare. Ancora niente. Penso che la maledizione di Tamerlano voglia tormentarmi appena messo piede in terra uzbeka. Nel mio povero russo cerco di tirare fuori dalla cassa toracica qualche parola adatta a svegliare qualcuno, squarciando il silenzio notturno. Alla fine dopo più di un’ora, un ragazzo dall’aria assonnata ci apre chiedendoci scusa.

La notte scende dolce sulla nostra stanchezza, ma alle prime luci mi sveglio godendomi i tappeti multicolori che adornano il patio esterno. Una casa tipica, immersa nel verde e resa ancora più affascinante dall’allegria delle simpatiche cameriere che insieme ad Umid Umid, il giovanissimo cugino del proprietario che per tutta la durata del mio soggiorno sarà la mia mascotte, ci danno il benvenuto.

Pozze, strade dissestate, fango e bovindi in aggetto retti da esili pilastri sono il biglietto da visita di una città rimasta agli antipodi con la veloce globalizzazione. Tutti ci guardano con curiosità al nostro passare e cerco di immortalare uomini anziani vestiti con colbacchi e lunghi cappotti verdi non proprio adatti in questa giornata afosa. Scatto diverse foto senza farmi scorgere dalle persone ma mi accorgo che nessuno prova fastidio e comincio ad abituarmi ad una cosa che avevo riposto nel dimenticatoio e che i nostri cosiddetti popoli civili hanno totalmente rimosso: la gentilezza. Attraverso la strada che sembra dividere la città in due parti, una obsoleta ed un’altra storica e più moderna.

Il Regstan e l’influsso del Comunismo sovietico

Arriviamo al Registan, dove tre enormi madrase elegantemente rifinite circoscrivono una piazza con una pavimentazione dalle sinuose forme. Ho solo euro con me e chiedo dove poter cambiare qualche som per pagare il ticket d’ingresso. Sembra strano ma non ci sono banche che effettuano tali operazioni ci dicono, l’addetto ci chiede a quanto ammontano i soldi di cui disponiamo e chiama un suo fido che con una busta nera ce ne consegna un enorme malloppo. Incredibile da credere, ma non riesco a riempire le mie capienti tasche tanto siano le banconote ricevute.

Chi vede il Registan adesso è fortunato, sopra tutto dopo il crollo del Comunismo, quando la piazza era transennata eliminando un po’ di quella vivacità che la contraddistingue ora. Il mio occhio si perde tra gli affascinanti e labirintici mosaici geometrici che ricoprono le antiche colonne. In tutte e tre gli edifici ci sono diversi piccoli negozi che vendono souvenir come in un antico bazar. Si avvicina un signore dall’aria sveglia e mi chiede in un buon inglese la mia provenienza, e mi fa qualche domanda, spiegandomi che durante il dominio russo, era proibito sia lo studio dell’arabo che pregare. Tutti lo facevano ma di nascosto dalle autorità. Colgo subito la ghiotta occasione e da intervistato passo ad intervistatore. La simpatia è reciproca e penso che proprio per questo l’uomo mi dia risposte sempre più dettagliate.

Voglio sapere la differenza tra la vita di oggi e quella al tempo del regime e soprattutto quale futuro auspica per il suo paese. “Il Comunismo – mi dice – aveva dei lati nefasti, soprattutto quello di cercare di creare un mondo nuovo e perfetto, riuscendo solo distruggere parte della nostra cultura. L’unico aspetto positivo e che si garantivano gli standard di sopravvivenza minimi a tutta la popolazione”. Poi mi rivolge una domanda : ”Tu che sei venuto fin qui, e che ami viaggiare potresti vivere in un mondo che ti rende parte di un ingranaggio, senza possibilità di scelta?”. Rispondo riflettendo un attimo:” No non riuscirei a sopravvivere, perché già soffro nel mio paese, in cui mi sento soffocare da uno stato che non riesce più a stare al passo con il cittadino e che con la burocrazia soffoca la mia fantasia, facendomi ripetere quotidianamente gli stessi gesti”. “Bravo benvenuto nel Comunismo.”, mi dice divertito da questo insolito scambio di battute.
Sospira, prende fiato e continua a farmi partecipe dei suoi pensieri: “Comunque, oggi in Uzbekistan si sente il vento del cambiamento ed il nuovo presidente che si è appena insediato vuole per prima cosa combattere la corruzione dilagante. Vedi le strade? – mi dice – non vengono mai asfaltate perché si vuole evitare che le si appalti sempre alla stessa ditta.”

Mi sottolinea che il paese avrebbe desiderio di seguire le orme della locomotiva economica dell’Azerbajian e quella del confinante Khazakistan, anche se a differenza delle due l’Uzbekistan è solamente ricco di gas e non di petrolio.

Saluto, andando via e sento un leggero sapore di sconfitta, perché andando indietro di un ventennio sento che nonostante tutto anche la vecchia Europa si stia dirigendo verso un regime non dissimile dalla dittatura della Rivoluzione d’Ottobre.

La moschea Bibi-Khanum

Mentre vado nella moschea di Bibi-Khanum, diversi bambini, vestiti con uniformi scolastiche misalutano con allegria, una cosa che mi rimarrà nel cuore per tutto il viaggio. La bellezza della cupola color smeraldo è di una fantasia tale da immaginare l’amore che Tamerlano potesse riversare sulla sua preferita onorandola con questa meravigliosa costruzione. Era qui che un tempo veniva posato uno specialissimo Corano, il più antico del mondo, rilegato in oro e del peso di trecento chili. Attraverso il mastodontico ingresso e diversi pellegrini sono seduti per farsi immortalare in questa meravigliosa giornata di sole. Sono animati da una misteriosa lentezza, seduti su una panchina che non disdice con il contesto, a differenza degli orribili pluviali in rame e plastica che sembrano essere stati posti casualmente dopo i restauri da un non addetto ai lavori.

Esco fuori dalla moschea, dirigendomi al bazar nutrito e colorito. Cambiano gli algoritmi dei paesi, le dinamicità ed i contesti ma i poveri rimangono sempre gli stessi, e qui c’è ne sono davvero molti. Gli odori dei dolci e dell’ambiente sono pungenti come tutti i mercati dell’Asia Centrale da me visitati. Tutti sembrano vendere le identiche cose, e l’unica originalità è l’individualità delle sete indossate dalle donne.

Durante le visite alle diverse moschee, penso al mio ispiratore Tiziano Terzani, venuto qui alla fine del Comunismo, per omaggiare questa meraviglia di città: “Vado a letto depresso alla semplice idea che, essendo venuto a vedere Samarcanda, non avrò d’ora innanzi più modo di sognarla”. Frase quanto mai indovinata ed adesso posso capirla maggiormente dopo aver assaporato Samarcanda così intensamente.
Eppure il gioiello uzbeko è stato oggetto di mire tagike, quando i confinanti hanno creato un movimento di resistenza dal nome “Rinascimento”, che voleva annettere la città al proprio paese.

E’ qui che voglio dirigermi nel crocevia del mondo, nel perno della via della seta, tra Afghanistan e Tagikistan, per vedere i paesaggi che mi hanno sempre suscitato interesse.

Il tassista ci passa a prendere quasi sotto l’albergo, ci saluta nella solita garbata maniera e si dirige in un panificio, cosa che capirò in un secondo tempo. I paesaggi all’inizio sono piatti e brulli, ed un’improvvisa sonnolenza si impossessa di me, ma le deformazioni stradali mi fanno sobbalzare ad ogni scasso non permettendomi di riposare. La monotonia del primo tratto del nostro tragitto, si dirada pian piano dando vita a diversi piccoli borghi costruiti con una grande essenzialità, dove addirittura i muretti sono realizzati con fango, paglia e qualche mattone.

Il panorama diviene sempre più impervio e montagnoso, con delle specie di calanchi di colore rosso.

Arriviamo ad un posto di blocco, la polizia ci ferma ed uno uomo in divisa solertemente viene verso di noi. Ci guarda con molta attenzione, spia i nostri movimenti, guarda le nostre labbra. Mi viene un po’ di paura, immagino cosa potesse volere, cosa potesse chiederci, ma prontamente il tassista mette nella pagnotta qualche contante che altro non è che il prezzo del nostro pedaggio.

Siamo ai confini del mondo, non ci sono strade ma solo mulattiere, gli uomini si dirigono al lavoro all’interno di un camion scoperto o con degli asini che sembrano gli unici animali esistenti in questa landa desolata. I paesaggi sono simili a quelli che si vedono in tv durante l’esecuzioni dell’Isis e mi viene il dubbio se abbia fatto bene a seguire il mio senso di avventura.

Ma è proprio questo frangente che dà il vero senso della mia presenza a migliaia di chilometri di distanza da casa. Salendo su di una piccola montagna un imam vestito per le sue funzioni religiosi, ci viene incontro salutandoci, è incuriosito si avvicina con calma come se volesse prima capire il perché del nostro passaggio, ci saluta porgendoci la mano e ci invita ad entrare facendo dei gesti per cercarci di spiegare la magia del luogo. Si sforza, ma l’unica parola che capisco è Yemen, probabilmente qualche pellegrino venuto da quel lontano paese aveva costruito questa moschea così diversa da quelle che siamo abituati a vedere.

Entriamo in un luogo buio e l’imam afferra la mia macchina fotografando i punti più suscettibili della sua moschea. Ci onora, invitandoci a pregare insieme agli altri pochi fedeli. Accetto volentieri e gesticolando mi fa comprendere che d’altronde Allah ama tutti, anche noi due che siamo di una religione diversa. Non comprendo nulla della sua preghiera, ma cerco di emulare i suoi gesti, mettendomi le mani sul viso prima per poi portarle successivamente sulle mie ginocchia. Ci guarda un attimo, come se avesse paura che avremmo sorriso per questa loro strana abitudine. Mi sento un tutt’uno con le parole del Corano, perché lì in pieno deserto non ci sono né mussulmani e ne cristiani, ma solo uomini di pace che pregano e poco importa che il loro Dio si chiami Allah od in una altra maniera. Dopo aver finito la funzione salutiamo tutti i fedeli abbracciandoci come se ci fossimo sempre conosciuti. L’Imam, questo caro Imam, che ricorderò per sempre per la sua grande apertura mentale mi è sembrato così distante dalla follia dei falsi profeti che stanno aggredendo il mondo con la loro stupida ferocia.

La strada di ritorno è lunga, ci fermiamo per bere del tè, e cinque bimbi molto affamati si spartiscono un misero piatto di riso, ma dalle loro tasche si intravedono dei moderni cellulari come se la tecnologia oramai avesse anche qui soppiantato il vero senso della vita. Penso a quanto cibo avrannorisparmiato per permettersi il biglietto di una corriera e raggiungere la città più vicina per acquistare questi mostri tecnologici e diventarne schiavi come è successo oggigiorno anche a noi.

Torniamo in piena notte a Samarcanda dopo aver condiviso questa magica esperienza, ed Umid mi aspetta per darmi l’ultimo saluto insieme a dei chiassosi commercianti uzbeki che hanno optato di stare nel piccolo salone all’interno del chiostro. La loro allegria è contagiosa e ci dicono che verranno in Italia per comprare l’Olio Monini ed altri generi tipici della nostra penisola, perché vorrebbero tirar su una piccola azienda a Tashkent.

Brindiamo tutti insieme al nostro ritorno a casa, alla riuscita della loro nuova impresa.


(Articolo apparso per la prima volta su eurasianews.it il 10 novembre 2017)

 

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