Armenia e armeni, dolore e bellezza
L’Armenia mi mette immancabilmente un velo di tristezza per la sua drammatica storia, scolpita sui lineamenti del suo popolo, a cui sento cucito addosso l’inspiegabile ingiustizia di un genocidio senza memoria.
Gli ebrei, grazie alla propria forza economica e al fatto che il mondo gli debba continuamente delle scuse, sono riusciti a creare un sentimento comune. Gli armeni no.
Simili destini, stesso dolore, diversa considerazione.
Nomadi in un mondo sordo ai loro lamenti, costretti a ricordare l’Olocausto sottostante l’alta stele del malinconico memoriale di Yerevan.
Erick, la mia guida, è conscio del poco rilievo dato dall’occidentale alle sofferenze della sua gente.
Quale Europa mi chiedo? Quella che ha dato il via libera alla farina di grillo, accusando i sapori dell’italica tavola o quella dell’Agenda green 2030?.
Yerevan ricordi d’oltre cortina
La fronte spaziosa del Piccolo Padre della Patria urta violentemente il suolo, durante le caotiche giornate del 1991 e il popolo si accalca per vomitargli addosso il proprio odio, rivendicando la propria autodeterminazione.
Sono passati oltre trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, ma il fascino tristanzuolo di Yerevan è ancora vivo nella sua rigida maglia urbana e nei palazzoni di stile costruttivista.
La Trabant, celebre “Wolkswagen” dell’est, è ancora il mezzo più utilizzato. Scatole di latta multicolori, simbolo di un passato indelebile.
Le alterne vicende della guerra in Ucraina hanno messo a soqquadro i prezzi della nostra filiera alimentare e non c’è modo di calmierarli, mentre per l’Armenia è stata un’inaspettata fortuna.
Gli investimenti della borghesia russa, caduti a pioggia nel comparto edilizio, hanno dato ossigeno ad una economia in lenta ascesa e che probabilmente si protrarranno finché il conflitto durerà.
Nonostante ciò, lo stile architettonico delle nuove costruzioni non è riuscito ad emanciparsi. Simmetria e monumentalità sono il must di un gusto retrò d’oltrecortina.
Yerevan non ha il carattere delle altre due capitali caucasiche, Tbilisi e Baku, ma il passeggio tra le vie del centro città e la sua faticosa e interminabile Cascata è assai piacevole.
L’eremita tra le nuvole
Mi capita spesso quando sono in compagnia di sentirmi dannatamente solo. Non nego di essere disorientato e ho tentato di capire cosa non andasse in me. Sono in una nuova fase di maturità e la solitudine spirituale è divenuta una lente d’ingrandimento per lavorare su me stesso.
Un’opportunità per eliminare sentimenti tossici, come risentimento, vanità, rabbia e invidia.
Come un’eremita trovo riparo presso la “fortezza” mariana della Madonna dell’Ambro, quando assieme al giullare di Dio Padre Gianfranco Priori, missionario in Somalia, parliamo delle virtù cristiane e delle nostre esperienze fuori dal Bel Paese.
Anche l’Armenia ha lo stesso “pragmatismo” mistico e la sensazione di farmi vivere rituali di un’ortodossia cattolica ante-litteram.
La massima espressività la raggiungo mentre m’incammino all’interno del monastero di Geghard, dove le montagne fungono da tetto e l’acqua da fondamenta.
A cavallo tra zona desertica e alte vette assisto al battesimo di due ragazzi. Un prete con un lungo abito talare, pronuncia frase incomprensibili, una specie di “formula pagana“.
La sua forte corporatura, dettata dallo sguardo saturnino e il cappuccio che gli copre parte del viso, mi danno un forte senso d’inquietudine. Si muove lentamente e osserva gli astanti con calma, penetrando i più reconditi segreti della mia anima. Provo a nascondermi tra la folla, con il risultato di scoprirmi maggiormente.
La strada per raggiungere l’Iran è lunga. L’energia della prima colazione sembra svanire come d’incanto, così Erick mi offre il Lavash, il tipico pane armeno.
Ci fermiamo in un vecchio forno, dove un’anziana ammassa una spianata, per poi sbatterla contro un antico forno sotterraneo.
Una “piadina” gustosa che ci dividiamo con generosità in auto e che mi ritempra dalla stanchezza.
Il monastero di Tatev è posto su di una roccia e per raggiungerlo devo prendere la funivia più lunga del mondo. Cinque chilometri sospeso nel bel mezzo di uno stupendo idillio naturalistico.
Le architetture sono ripetitive, con chiese a croce latina e una torre nel bel mezzo, ma alla loro maniera ognuna mi genera sensazioni diverse.
La scintilla della mia nuova consapevolezza si è cementata in questo luogo. Resettare tutto ciò che la società mi ha imposto e il magnetismo di questa nazione, sembra darmi valide risposte ai miei continui dubbi.
Il Karabakh
Il Nagorno non è così lontano da Tatev. Superiamo cimiteri di guerra che ricordano i caduti, mentre alcuni militari si accalcano al check-point.
E’ una pace in costruzione, che spesso si trasforma in violente escalation e pogrom, come nel 1992 quando alcune truppe armene massacrarono a Khojaly, la pacifica popolazione azera.
L’Armenia considera il Karabakh un prolungamento della propria nazione e l’enclave un innesto azero nel proprio paese.
Shusha non ha nessuna valenza logistica, ma è la citta simbolo dello scontro, come lo fu Stalingrado durante la Seconda guerra Mondiale, tra due visioni inconciliabili del mondo. Quella monoetnica e isolazionista dell’Armenia e quella pluralista e non dogmatica dell’Azerbaijan.
Vinta nel 2020 in soli 44 giorni, durante la prima pandemia dall’esercito del presidente Ilham Alyev che come da suo programma ci sta riconsegnando, dopo la sua ricostruzione, una città dall’antico splendore.
Difficile giudicare per uno straniero, sapendo poi che il mainstream considera il conflitto una guerra periferica, senza nessun risvolto economico internazionale.
A salvaguardare la pace ci sono i russi. Cosa vogliono ottenere con questa abile mossa da peacekeeping?.
Quelli del luna park
Dal Komsomol alla fabbrica, come dire “dalla culla alla tomba“. Per decenni questo è stato il rigido protocollo imposto dalla nomenclatura locale a stakanovisti senza futuro.
Ho demonizzato il Comunismo per la sua ottusa ricerca tesa ad una spersonalizzata uguaglianza, con l’unico risultato di aver annichilito l’essere umano.
Eppure il mio rapporto con l’economia di mercato non è più la stessa.
Ho creduto in un “capitalismo dal volto umano“, una terza via fusa tra diritti e sana ambizione.
La situazione ci è sfuggita di mano, trasformandosi in un’estenuante ricerca verso il profitto, circoscritta a beni superflui e senza valore, feticci di una società vuota e senza ideologie.
Questo popolo vive dentro una pentola a pressione pronta ad esplodere, ha avuto una terribile diaspora, salari medi al di sotto della media europea, eppure sorride e lo fa con gusto.
Le giovani madri non stringono nelle proprie mani i cellulari, ma quelle dei figli, indaffarati sullo zucchero filato acquistato al luna park, piuttosto che sullo stato di qualche social.
Non esiste la società perfetta, come il socialismo di stampo sovietico voleva farci credere. Ci sarà sempre qualcosa da invidiare: un abbraccio, un’amore, il talento.
Gli armeni lo sanno bene. I tormenti del passato non hanno scalfito la gentilezza del loro animo e l’ospitalità rimane un tratto imprescindibile della loro esistenza.
Una risposta
Grazie infinite carissimo Marco!.
Con un accenno di poche righe, ha fotografato la vita un paese , stimolando la voglia di approfondire.
Viaggiando in certi luoghi arricchisce la nostra conoscenza di inimmaginabile valore👏👏👏🍀